Scrittura
Il figlio cambiato
da Luigi Pirandello
una drammaturgia della 1^B a.s. 2017/8
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Il Nuovo mondo
un racconto di Ilenia Vinciguerra 3^B
Lasciare la propria casa, i propri amici e le proprie abitudini non è mai facile per nessuno, soprattutto se la meta del viaggio non è chiara. Sono settimane che sento parlare di questa “America”, delle possibilità che offre e degli enormi benefici che porterà a me e alla mia famiglia, ma io non credo a queste cose e le considero false promesse. Anche se continueremo a vivere in miseria, almeno potrò vedere il mondo e aprirmi a nuovi
orizzonti.
Dopo una rapida colazione, eravamo pronti a partire anche se in fondo nessuno di noi era mai stato così impreparato e spaventato. Per me chiudere la porta di casa significava chiudere un capitolo della mia vita. Avevo a disposizione un foglio bianco, potevo diventare la penna e l’inchiostro per scrivere una storia totalmente nuova. Sono stata io a girare la chiave nella serratura; in quel momento ho provato tante emozioni: tristezza, gioia, paura, preoccupazione, ansia… Prima di salire sul carro di mio padre, promisi a me stessa di non voltarmi a guardare indietro, ma cedetti. Continuare a reprimere le mie emozioni sarebbe stato inutile e finii per sfogarmi in un lungo pianto. Il viaggio durò molte ore, il nostro unico asino trainava il carro a fatica e il nostro peso non faceva che rallentarci. Prima che il sole tramontasse, decidemmo di fermarci sul ciglio della strada. Non era la prima volta che dormivo sul carro: la paglia mi provocò irritazioni e prurito mentre le dure tavole di legno mi spaccavano la schiena, ma la stanchezza prese il sopravvento e caddi in un lungo sonno agitato. Il giorno seguente fui svegliata da un brusco movimento dell’asino che mi fece sobbalzare. Svegliai mio padre che dopo qualche sbuffo si sistemò la vecchia camicia logora che, negli anni passati senza potersene permettere un’altra, aveva assunto un colore giallastro. Ripartimmo subito. La strada sterrata era circondata da una fitta foresta di pini che oscurava la luce del sole rendendoci più difficile stabilire che ore fossero. Nei momenti di noia mi intrattenevo contando i secondi che passavano, lo consideravo rilassante e mi aiutava a scavare un vuoto nei miei pensieri. Passate tre ore ci fermammo per qualche minuto. Fui incaricata di riempire le borracce con l’acqua fresca del torrente; ogni volta che questo compito mi veniva assegnato, mio padre mi ripeteva che dovevo prendere l’acqua vicino alla roccia da cui sgorgava e che dovevo evitare quella stagnante. Ma stavolta non disse nulla, non sapevo come interpretare il suo silenzio; mi limitai a scendere dal carro e a
prendere l’acqua. Al mio ritorno ripartimmo subito, la foresta era meno fitta e si riusciva ad intravedere il rosso tramonto con le sue lingue di fuoco. Mancavano ancora un paio d’ore che a me sembrarono un’eternità. Finalmente riuscii a scorgere il mare attraverso gli alberi: paura ed eccitazione mi invasero, era da lì che cominciava il vero viaggio.
La notte passò lentamente, non chiusi occhio, il mio cervello continuava ad elaborare ipotesi, aspettative, preoccupazioni. Mi fu impossibile dormire. Al sorgere del sole anche i miei genitori si alzarono esausti, non credo che avessero dormito quella notte, probabilmente erano agitati quanto me. Proseguimmo verso il porto. Dove avremmo lasciato il carro? chiedevo a me stessa. Sulla banchina mi apparve una folla vociante. Dopo qualche secondo di esitazione mio padre cominciò a correre verso una gigantesca nave bianca e blu. Sulla fiancata c’era scritto “Freedom”, in nero, a grossi caratteri. Non avevo idea di cosa significasse e i miei tentativi di analizzare la parola furono interrotti da mia madre che mi spingeva nella folla. Mi urlò di salire sulla nave. Prima che un'enorme massa di persone la inghiottisse, la vidi trattenere a stento una lacrima. Non capivo cosa stesse succedendo. Tra spintoni e gomitate riuscii a raggiungere la nave. Ad attendermi c’erano alcuni membri dell’equipaggio che si occupavano di dividere le donne dagli uomini. Ero sperduta e confusa, non riuscivo a ragionare in maniera lucida e finii col fermarmi proprio nel bel mezzo del ponte che collegava la terraferma alla nave. Una delle donne, vedendomi in difficoltà, mi disse di seguirla. Camminai dietro di lei, procedemmo lungo il ponte di
legno fino a raggiungere la porta della stiva. Una volta entrata ringraziai la donna e mi buttai sulla prima cuccetta che vidi: il materasso, se lo si può definire tale, era duro e pesante, sopra c’era un cuscino altrettanto duro e una coperta logora e sporca. Mi guardai intorno in cerca di mia madre ma non la trovai. Chiesi alla donna sdraiata nel letto accanto al mio se ci fossero altri scompartimenti femminili; mi rispose che quello era l’unico.
Rassegnata mi sdraiai anch’io e frugai nella mia borsa in cerca di un po' d’acqua. Tastai con la mano il recipiente metallico che la conteneva, ma trovai qualcos’altro: sembrava un foglio spiegazzato. Non ricordavo di avere della carta con me, incuriosita la tirai fuori dallo zaino. Era una lettera dei miei genitori: non avevano abbastanza soldi per far partire tutti e tre e avevano deciso di concedere questa opportunità solo a me. Non capivo perché mi avessero tenuta all’oscuro di tutto, non riuscivo ad accettare di essere grata per quel gesto. Senza di loro mi sentivo persa, era come se una parte di me fosse stata violentemente recisa. Dovevo rimanere forte, mi aspettava un lungo viaggio. La notte fu molto lunga, il legno scricchiolava a ogni minimo movimento, ma alla fine la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai. Mi svegliai all’alba. Scesi dalla cuccetta, raccattai le mie poche cose e le sistemai nella borsa. Poi mi diressi verso l’uscita della stiva. Un vento fresco e leggero mi scompigliò i capelli, il sole stava emergendo da sotto il mare, dando al cielo un colore rossastro. La colazione consisteva in una tazza di latte rancido, una fetta di pane tostato e una noce di burro ancora più acido del latte. Appena ricevetti la mia razione, sedetti su una panca e posai il cibo sul tavolo di legno. Accanto a me era seduto un
uomo di mezza età che discorreva animatamente di politica con un signore, seduto di fronte a lui. Sempre più gente si unì, e quella semplice conversazione si trasformò in un animato dibattito. Finita la colazione continuai a girovagare. Ogni tanto mi fermavo e mi sporgevo dal parapetto; il mare era calmo, probabilmente non avevamo ancora raggiunto l’oceano. Verso mezzogiorno tornai alla mensa; per pranzo c’era un piatto di zuppa leggera e insapore e un pezzo di pane. Passai il pomeriggio a rileggere la lettera dei miei genitori. Non li avrei mai perdonati. Ero convinta che mi avessero abbandonata. Fino a mezzanotte stetti seduta sotto la ciminiera a guardare le stelle: erano così luminose a quell’ora. Passò una settimana di mare aperto, inesplorato, non si vedeva altro che acqua. Un giorno, a colazione si presentò il capitano in persona. Egli richiamò tutti al silenzio e cominciò a parlare. Disse che mancavano pochi giorni all’arrivo e che tutti avrebbero dovuto recarsi nei propri alloggi per essere visitati dal medico di bordo. Chiunque avesse presentato sintomi di tubercolosi o di altre malattie infettive, sarebbe stato immediatamente imbarcato su un piroscafo per l'Italia. Obbedii e mi misi in piedi davanti alla cuccetta. Il medico mi visitò per prima, mi controllò occhi, denti, orecchie e mi chiese se avessi sputato sangue ultimamente. Risposi di no; il medico prese un modulo e barrò la casella “sano”, poi mi disse di compilare il resto del foglio con i miei dati anagrafici. Gli consegnai il modulo, lui lo firmò e andò a visitare gli altri passeggeri. Passarono tre giorni. Come di consueto facevo una passeggiata sul ponte; ora riuscivo a vedere la terraferma, era così vicina, così bella. Mancava ancora una notte di viaggio. E la notte passò. All’alba corsi ad affacciarmi al parapetto. Davanti a me, un’imponente statua di bronzo con il braccio alzato. Ero arrivata nel nuovo mondo.
Dopo il mio arrivo a New York, mi unii alla comunità italiana. Per molto tempo ho lavorato come cameriera in un ristorante. Essere italiana ha ostacolato parecchio la mia integrazione in questo Paese. Oggi ho ventidue anni, ho scritto un libro con le storie di emigrazione della mia gente e di recente ho incontrato un editore che ha deciso di pubblicarlo. Solo ora sento di aver lasciato veramente il vecchio mondo.
Ricordi passati
di Sofia Miceli 3B
Nella città dove vivevo un tempo era raro essere allegri, le persone sopravvivevano, ma niente di più. Gli amici si salutavano, sì, ma senza calore, in fondo, se non te lo hanno mai insegnato quel calore, come potresti mai condividerlo con qualcun altro? È difficile. Pioveva quasi sempre, faceva freddo e quando l’aria si scaldava un po’, in cielo si formavano dense nuvole marroni. Nella città dove vivevo non si poteva essere felici, ovunque si andasse c’era sospetto e paura, non c’era il sogno di un futuro migliore né speranze di grandi avventure. La società ti insegnava a risparmiare per mantenere la famiglia, ti inculcava in testa l’importanza del lavoro costante e sfiancante. In una città del genere come si poteva essere allegri?
Il mio nome è Sebastiano Hu, lavoravo come addetto alle pulizie in un’azienda postale ed ero un uomo qualunque che però credeva nel valore della vita. Non mi si sarebbe detto un uomo ridente, una persona che sa cogliere le occasioni, che sa gettarsi o fidarsi ciecamente. Quello era mio fratello, Abel era sempre stato sincero e sorridente, ma piangeva se era triste e non seguiva le masse solo perché tali. Quando mi vedeva angosciato prendeva la mia mano e diceva la parola magica, allora io sorridevo e lo abbracciavo. Se c’era Abel ero felice.
Quel giorno mi trovavo sul tram sospeso, i suoi binari corrono lungo l’intera città e da là sopra, si vede tutto. Si riuscivano a scorgere gli operai arrampicati sulla gru, sferzati dal vento. Vedevamo i lenzuoli bianchi sopra i pallidi corpi smunti dalla fame. Vedevamo, sì, ma nessuno guardava. Quando la polizia, in mezzo alla strada, metteva a tacere le persone scomode che con un’ultima lacrima solitaria lasciavano questo mondo crudele, ci giravamo dall’altra parte, era tutto normale. Mi sono sempre chiesto, perché, perché nessuno alzava la voce per protestare? Perché io non lo facevo? Ci siamo detti che altrimenti saremmo stati uccisi e ce ne convincevamo, ma la verità era che alla fine tiravamo un sospiro di sollievo, perché i malcapitati non eravamo noi. Abel no, lui aveva sempre combattuto per i diritti, perché lui guardava e voleva guardare, lui era fantastico.
Però Abel non c’era più e io avevo imparato a esistere senza di lui, sì, esistere, perché ormai la mia non potevo più chiamarla vita.
Guardai fuori dal finestrino sporco e appannato, poggiai la faccia sul vetro e sospirai profondamente, rassegnato alla crudeltà di questa vita. Non saprei dire precisamente cosa accadde in quel momento, so solo che come per magia le nuvole marroni e sporche si diradarono, sospinte da una brezza leggera e incantata, infine spuntò il sole...Oh! Il sole! Da quant’è che non appariva così limpido e caldo! Assaporai il profumo di pino che si spargeva in ogni dove. Ogni cosa, ogni solitario filo d’erba, ogni cartaccia, appariva diversamente illuminata da quel sole così splendente. “Oh, se fossi qui...” Se fosse stato lì, avrebbe guardato il cielo meravigliato e avrebbe riso sommessamente, proprio come fece l’ultima volta che ci vedemmo, prima che venisse zittito da quei miserabili, sporchi maiali.
Scesi dal tram, quella strada l’avevo fatta miliardi di volte, tutti i giorni, eppure le scale brune e cigolanti, i vicoli sudici, le insegne al neon, sembravano più chiare, più vere. Le persone parevano allegre, per la prima volta dopo anni, chissà, magari avevamo perso tutti il bene dell’intelletto. Meglio così, preferivo impazzire piuttosto che tornare a quella grigia normalità che ci uccideva ogni minuto di più in un’agonia lenta e straziante. Mi accorsi che non me la sentivo di sprecare quella limpida giornata di sole in un edificio di cemento soffocante, perciò cambiai strada.
E così passo dopo passo, minuto dopo minuto, arrivai al parco della città. L’unico posto dove era possibile rilassarsi per un momento e pensare, parlare, giocare, dormire se si voleva. Per la prima volta lo vidi assolato ed era molto più bello, avrei voluto rimanere lì per sempre a pensare a quando ero bambino e giocavo con Abel, ancora ricordo la scena di due ragazzini correre per le stradine sterrate. Poi siamo diventati ragazzi e parlavamo del più e del meno, rammento quando sedevamo sulle panchine e ci godevamo i pomeriggi. Poi saremmo dovuti diventare adulti e parlare di amori, di lavoro, della vita che ci stavamo costruendo, però...
Però questo tanto sperato sole iniziò a farmi paura, potevo pensare solo alla mia esistenza irrealizzata. Riuscivo solo a immaginare Abel al mio posto e l’angoscia mi attanagliava il cuore. Quante notti insonni! Quante serate a piangere e rammentare! Quanti anni sprecati a vivere una vita morta da tempo! Quanti attimi, cercando di dimenticare...E mi accorsi che non solo non sarei riuscito a dissipare il dolore nell’antro più profondo della mia memoria, ma che semplicemente non volevo farlo. Perché Abel era morto innegabilmente, aveva sofferto senza dubbio, eppure non volevo ridurre la sua vita a questo. Lui era stato felice, aveva lottato, era caduto centinaia di volte e si era rialzato, aveva amato una donna e la sua famiglia. Sono sicuro che nel momento in cui si è accorto di stare per morire abbia pianto, perché questo infame, scellerato eppure bellissimo mondo, non voleva lasciarlo.
Confuso con il fruscio delle fronde ed il soffiare del vento, sentii vibrare una frase sussurrata, nell’aria, una debole eppure incantevole parola magica: “Fintanto che siamo qui...”
Gli occhi si riempirono di lacrime, rimasi senza fiato, senza parole. Eppure parlai e abbozzando un sorriso dissi: “Fintanto che siamo qui va tutto bene, giusto Abel?”
Pensai che forse non dovevo per forza realizzare grandi cose, pensai che magari bastava voler vivere.
Decisi in quell’istante che volevo vivere, non importava come, dove o a che scopo, presi una decisione e da quel giorno in poi cerco di portarla a termine. Chi lo sa se ci sto riuscendo ...
Il mio nome è Sebastiano Hu, lavoravo come addetto alle pulizie in un’azienda postale ed ero un uomo qualunque che però credeva nel valore della vita. Non mi si sarebbe detto un uomo ridente, una persona che sa cogliere le occasioni, che sa gettarsi o fidarsi ciecamente. Quello era mio fratello, Abel era sempre stato sincero e sorridente, ma piangeva se era triste e non seguiva le masse solo perché tali. Quando mi vedeva angosciato prendeva la mia mano e diceva la parola magica, allora io sorridevo e lo abbracciavo. Se c’era Abel ero felice.
Quel giorno mi trovavo sul tram sospeso, i suoi binari corrono lungo l’intera città e da là sopra, si vede tutto. Si riuscivano a scorgere gli operai arrampicati sulla gru, sferzati dal vento. Vedevamo i lenzuoli bianchi sopra i pallidi corpi smunti dalla fame. Vedevamo, sì, ma nessuno guardava. Quando la polizia, in mezzo alla strada, metteva a tacere le persone scomode che con un’ultima lacrima solitaria lasciavano questo mondo crudele, ci giravamo dall’altra parte, era tutto normale. Mi sono sempre chiesto, perché, perché nessuno alzava la voce per protestare? Perché io non lo facevo? Ci siamo detti che altrimenti saremmo stati uccisi e ce ne convincevamo, ma la verità era che alla fine tiravamo un sospiro di sollievo, perché i malcapitati non eravamo noi. Abel no, lui aveva sempre combattuto per i diritti, perché lui guardava e voleva guardare, lui era fantastico.
Però Abel non c’era più e io avevo imparato a esistere senza di lui, sì, esistere, perché ormai la mia non potevo più chiamarla vita.
Guardai fuori dal finestrino sporco e appannato, poggiai la faccia sul vetro e sospirai profondamente, rassegnato alla crudeltà di questa vita. Non saprei dire precisamente cosa accadde in quel momento, so solo che come per magia le nuvole marroni e sporche si diradarono, sospinte da una brezza leggera e incantata, infine spuntò il sole...Oh! Il sole! Da quant’è che non appariva così limpido e caldo! Assaporai il profumo di pino che si spargeva in ogni dove. Ogni cosa, ogni solitario filo d’erba, ogni cartaccia, appariva diversamente illuminata da quel sole così splendente. “Oh, se fossi qui...” Se fosse stato lì, avrebbe guardato il cielo meravigliato e avrebbe riso sommessamente, proprio come fece l’ultima volta che ci vedemmo, prima che venisse zittito da quei miserabili, sporchi maiali.
Scesi dal tram, quella strada l’avevo fatta miliardi di volte, tutti i giorni, eppure le scale brune e cigolanti, i vicoli sudici, le insegne al neon, sembravano più chiare, più vere. Le persone parevano allegre, per la prima volta dopo anni, chissà, magari avevamo perso tutti il bene dell’intelletto. Meglio così, preferivo impazzire piuttosto che tornare a quella grigia normalità che ci uccideva ogni minuto di più in un’agonia lenta e straziante. Mi accorsi che non me la sentivo di sprecare quella limpida giornata di sole in un edificio di cemento soffocante, perciò cambiai strada.
E così passo dopo passo, minuto dopo minuto, arrivai al parco della città. L’unico posto dove era possibile rilassarsi per un momento e pensare, parlare, giocare, dormire se si voleva. Per la prima volta lo vidi assolato ed era molto più bello, avrei voluto rimanere lì per sempre a pensare a quando ero bambino e giocavo con Abel, ancora ricordo la scena di due ragazzini correre per le stradine sterrate. Poi siamo diventati ragazzi e parlavamo del più e del meno, rammento quando sedevamo sulle panchine e ci godevamo i pomeriggi. Poi saremmo dovuti diventare adulti e parlare di amori, di lavoro, della vita che ci stavamo costruendo, però...
Però questo tanto sperato sole iniziò a farmi paura, potevo pensare solo alla mia esistenza irrealizzata. Riuscivo solo a immaginare Abel al mio posto e l’angoscia mi attanagliava il cuore. Quante notti insonni! Quante serate a piangere e rammentare! Quanti anni sprecati a vivere una vita morta da tempo! Quanti attimi, cercando di dimenticare...E mi accorsi che non solo non sarei riuscito a dissipare il dolore nell’antro più profondo della mia memoria, ma che semplicemente non volevo farlo. Perché Abel era morto innegabilmente, aveva sofferto senza dubbio, eppure non volevo ridurre la sua vita a questo. Lui era stato felice, aveva lottato, era caduto centinaia di volte e si era rialzato, aveva amato una donna e la sua famiglia. Sono sicuro che nel momento in cui si è accorto di stare per morire abbia pianto, perché questo infame, scellerato eppure bellissimo mondo, non voleva lasciarlo.
Confuso con il fruscio delle fronde ed il soffiare del vento, sentii vibrare una frase sussurrata, nell’aria, una debole eppure incantevole parola magica: “Fintanto che siamo qui...”
Gli occhi si riempirono di lacrime, rimasi senza fiato, senza parole. Eppure parlai e abbozzando un sorriso dissi: “Fintanto che siamo qui va tutto bene, giusto Abel?”
Pensai che forse non dovevo per forza realizzare grandi cose, pensai che magari bastava voler vivere.
Decisi in quell’istante che volevo vivere, non importava come, dove o a che scopo, presi una decisione e da quel giorno in poi cerco di portarla a termine. Chi lo sa se ci sto riuscendo ...
Lumache al sugo
di Ginevra Rosati 3B
Lei, quella che sta per arrivare a scuola, è Elisa Giordani. Elisa è una professoressa delle medie e insegna da sempre nella stessa scuola, la scuola pubblica fondata dal suo bisnonno materno.
Pochi minuti fa Elisa ha salutato il marito, Ettore, un sottoufficiale della polizia che lavora molto. Elisa oggi è particolarmente stanca perché Gengis, il loro gatto, durante la notte ha avuto un malore. Gengis è stato chiamato così perché Gengis Khan è l'idolo del marito di Elisa. Gengis non è mai troppo felice alla vista di Elisa e con lei si ritrova a essere più ostile del solito. Ora la professoressa sta camminando e su collo e polso si possono scorgere dei cerotti che coprono alcuni graffi. Ogni volta che Elisa ha dovuto portare Gengis da qualche parte si è procurata diversi graffi, una volta, persino una cicatrice vicino all’occhio.
Ecco ora Elisa che sta per entrare a scuola, passa tra la folla di preadolescenti incollati al telefono ed entra. Elisa insegna storia. Un via vai di studenti e di professori che interrompono la lezione fino alla prima campanella: la ricreazione e tutti gli studenti fuori dalle classi. Poi tutti dentro, ritorna il solito via vai. Seconda campanella: di nuovo tutti fuori. Elisa vuole riposarsi e cerca di chiudere gli occhi, ma viene subito interrotta. Entra in classe un ragazzetto di prima, un po’ spaventato. Ha le mani nelle tasche della felpa. Il cappuccio in testa, un ciuffo di capelli in fuori. Inizia a parlare, balbettando: “Salve professoressa, sono un nuovo alunno della prima E, mi hanno detto di venire da lei. Vorrei parlarle di me…” ma “Di te?! Per quale motivo!”, esclama Elisa. E il ragazzino subito di risposta: “Beh, cosa ne sa lei di chi sono e non sono? Se le parlo di me mi conoscerà e capirà chi sono veramente, in fondo tutti i suoi alunni si sono presentati e hanno detto un po’ di loro.”. Allora Elisa senza avere più scuse lascia iniziare il ragazzo.
“Per cominciare mi chiamo Giulio Gatto, sono figlio unico e odio la fidanzata di mio padre. Mio papà si chiama Ettore. Mia mamma è morta molti anni fa. Purtroppo la fidanzata di mio papà devo vederla anche troppo spesso perché lei vive con me e mio padre, qui vicino. Mio padre è un poliziotto. Mi piacciono gli sport come il basket e il baseball e infatti pratico entrambi. Suono la batteria e il mio cibo preferito sono le lumache al sugo.”.
“Bizzarro per un ragazzo della tua età” interrompe la professoressa.
“Lo so, ma è la mia passione!” continua Giulio con un sorriso stampato in faccia. “Comunque, lo stavo dimenticando, ma non sono venuto qui solo per questo: le volevo mostrare una cosa, se è disposta a seguirmi.”.
“Come vuoi tu”, risponde Elisa.
Allora il ragazzo, a passo svelto, scende le scale controllando che Elisa lo segua, poi esce dalla scuola. Esce anche Elisa e, come succede solo nei sogni, i due improvvisamente si ritrovano in un altro posto, un appartamento a Elisa familiare. Il ragazzo continua ad agitarsi cercando qualcosa e nel frattempo parla con Elisa come la conoscesse da anni. Giulio ora fruga sotto al divano, ora salta sul letto, ora apre una mensola. Elisa capisce che il ragazzo sta cercando qualcosa, ma non capisce cosa. Ad un certo punto Giulio grida “Trovata!” corre da Elisa e le mostra una foto un po' sbiadita, chiusa in una cornice di legno dorato. “Ecco, questo sono io con mio papà e mia mamma prima che lei morisse. Qui avrò avuto circa 3 anni. Le piace questa foto? Personalmente mi piace molto perché mamma e papà sono felici.”. Elisa è ferma come una statua di ghiaccio, non sembra che senta la voce di Giulio che intanto la chiama. Allora Giulio si sdraia sul divano nell’attesa che la professoressa si riprenda. Passa un tempo indefinito mentre Elisa continua a pensare: “Quello nella foto, il padre di Giulio è Ettore, il mio Ettore, mio marito Ettore!”. Il ragazzo gioca con delle riviste, ne fa cadere una ed Elisa sbatte velocemente le palpebre.
Poco dopo si ritrova seduta alla sua cattedra, con un ragazzetto davanti a lei. Suona la campanella e una marea di studenti entra nell’aula. Elisa è ancora intontita dal suo sogno e continua a pensarci anche durante la lezione. Ora inizia a spiegare Gengis Khan, ma in un angolo della sua mente pensa ripetutamente al suo sogno. Cerca di capire che cosa è successo, ma alcune parti del suo strano ricordo sono annebbiate. Cerca di ripercorrere il sogno dall’inizio alla fine, ma ha dei buchi. Magari in quei vuoti di memoria c’è una risposta ai suoi dubbi...
Tornata a casa, Elisa non riesce a smettere di pensare al suo sogno.
Per cena Elisa aspetta il marito e gli prepara le lumache al sugo: Gengis non smette un attimo di starle tra i piedi, ma non la graffia...
Ettore arriva a casa e dopo il graditissimo pasto va a leggere il giornale. Allora Gengis si avvicina a lui e dopo poco i due iniziano a giocare. Elisa si trova a correggere delle verifiche sul tavolo del soggiorno e osserva la scena. Una fitta al cuore, Elisa sente di avere degli estranei in casa. Continua a guardare un uomo e un gatto che sembrano quasi padre e figlio...