Afghanistan
Per cominciare, guarda questo video che ti mostra le immagini dell'Afghanistan negli anni '60/'70 del Novecento; un paese ancora prevalentemente rurale, in cui uomini e donne svolgevano una vita semplice, esprimendosi nel lavoro, nall'arte, nella politica. Sebbene l'analfabetismo fosse già un problema, bambine e bambini frequentavano la scuola.
Ora guarda la videolezione Afghanistan 1979-2021.
Il prossimo video è stato girato nell'agosto del 2021; il ritiro delle truppe americane è stato completato il 31 agosto.
Ancora voci dall'Afghanistan.
Il testo che segue è tratto un articolo del 27 dicembre 2021 del giornale online Il post. Per approfondire puoi cliccare sui collegamenti evidenziati.
La vita delle donne afghane sta tornando a essere quella del primo regime talebano
Con moltissimi diritti negati: l'ultima norma approvata ha vietato alle donne di viaggiare senza un accompagnatore maschio
Domenica i talebani, al potere in Afghanistan da ormai più di quattro mesi, hanno detto che le donne non potranno più percorrere distanze maggiori di 72 chilometri senza un accompagnatore maschio. Il provvedimento è l’ultimo di una serie con cui i talebani hanno limitato i diritti e le libertà personali delle donne, che ad oggi, nella maggior parte dei casi, non possono lavorare e studiare dopo i 12 anni: per loro, la vita sta tornando a essere quella del primo regime talebano, durato dal 1996 al 2001.
Il nuovo divieto è stato deciso dal ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, sulla base di un’interpretazione estremamente radicale della sharia, la “legge islamica”. Oltre a vietare alle donne di percorrere più di 72 chilometri da sole, la norma vieta ai tassisti di far salire sulle proprie auto donne senza velo (ma non viene specificato che tipo di velo, se l’hijab, che copre il capo ma non il viso, o veli integrali come il niqab o il burka). Il nuovo divieto impone inoltre a chiunque, uomo o donna, di non ascoltare musica in macchina.
I divieti appena imposti sono praticamente gli stessi che erano in vigore durante il primo regime talebano, quando alle donne era vietato uscire di casa senza un maharram (maschio guardiano).
– Leggi anche: Come si viveva durante il primo regime dei talebani
Circa un mese fa, i talebani avevano proibito alle reti televisive afghane di trasmettere programmi e telenovele in cui apparivano donne, e alle donne di recitare nei programmi televisivi afghani. La norma imponeva alle giornaliste e presentatrici televisive di tenere sempre il capo coperto. Nelle settimane precedenti, i talebani e i loro sostenitori avevano anche provveduto a coprire, imbrattare e cancellare con la vernice nera le molte immagini di donne presenti nelle pubblicità o fuori dai saloni di bellezza di alcune città afghane. Inoltre, il nuovo regime ha chiuso il ministero degli Affari femminili, una specie di ministero per le Pari opportunità, istituito nel 2001.
Più in generale, i divieti per le donne introdotti negli ultimi quattro mesi e mezzo sono stati diversi.
Come era già successo durante il primo regime talebano, per esempio, sono stati imposti enormi limiti al diritto al lavoro – ad eccezione di alcuni casi particolari, la stragrande maggioranza delle donne afghane oggi non può lavorare – e all’istruzione.
A metà settembre i talebani avevano detto che alle donne era permesso frequentare le università, ma in corsi riservati solo a loro e tenuti esclusivamente da docenti donne, di cui, comunque, avrebbero rivisto i contenuti. Ad oggi molte università afghane hanno riaperto formalmente, ma i corsi non sono ricominciati e si sta ancora lavorando a come mettere in pratica la separazione tra uomini e donne. In futuro, comunque, accedere all’università potrebbe diventare impossibile per le donne afghane.
Sempre a settembre, infatti, i talebani avevano riaperto le scuole primarie e secondarie, permettendo ai soli studenti maschi di frequentare quelle secondarie (equivalenti alle medie e superiori italiane). Un provvedimento simile era stato preso anche alla fine degli anni Novanta, quando i talebani avevano vietato alle donne di studiare dopo i 12 anni, l’età a cui si accede alle scuole secondarie in Afghanistan: e senza scuola secondaria non ci si può iscrivere all’università (qualche scuola secondaria è stata poi riaperta alle studentesse, ma sono rimasti casi isolati e limitati solo ad alcune aree).
– Leggi anche: Come vanno le cose con l’istruzione femminile in Afghanistan
Negli ultimi mesi i talebani hanno adottato anche qualche misura in senso contrario, apparentemente di apertura verso le donne: per esempio hanno vietato il matrimonio forzato e regolato il diritto alla proprietà, concedendo alle vedove il diritto a una quota dei beni dei mariti. Si parla però di provvedimenti con impatto significativamente minore rispetto ai divieti imposti, e che molto probabilmente hanno l’obiettivo di ottenere legittimità di fronte ai governi stranieri e alle organizzazione umanitarie, da cui dipende in buona parte la sopravvivenza economica del paese.
I diritti delle donne sono una delle questioni principali, forse la più importante, su cui i governi stranieri stanno insistendo, ponendola come condizione necessaria per il riconoscimento del governo dei talebani e il conseguente accesso agli aiuti economici.
Il regime dei talebani continua a dire che i divieti in vigore sono temporanei, e che la condizione femminile non tornerà ad essere quella del primo regime: al momento però non sembra esserci nessuna ragione per credergli.
– Leggi anche: I talebani in Afghanistan stanno facendo peggio del previsto
Foglio di lavoro sull'Afghanistan
Svolgi l'esercitazione:
Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni
Ali aveva i tratti mongolici caratteristici degli hazara. Per anni tutto ciò che avevo saputo
di loro era che discendevano dai mongoli e che assomigliavano ai cinesi. I libri di testo quasi non ne parlavano. Poi, un giorno, nello studio di Baba, trovai un vecchio libro di storia di mia madre, scritto da un iraniano. Quella sera, a letto, lo lessi e fui sorpreso di trovare un intero capitolo sugli hazara. Un intero capitolo dedicato alla popolazione di Hassan! Scoprii che la mia gente, i pashtun, li aveva perseguitati e oppressi. Da secoli, periodicamente, gli hazara cercavano di ribellarsi, ma i pashtun "li reprimevano con inaudita violenza". Il libro diceva che la mia gente li aveva uccisi, torturati, aveva bruciato le loro case e venduto le loro donne. E una delle ragioni era che loro erano sciiti e noi sunniti. Il libro diceva cose che nessuno mi aveva mai detto. Ma anche cose che io sapevo benissimo, per esempio che gli hazara erano chiamati nasipiatti, mangiaratti, asini da soma. La settimana seguente mostrai al mio maestro il libro. Scorse in fretta un paio di pagine e me lo restituì con un sorrisetto di
sufficienza. «Se c'è una cosa che gli sciiti sanno fare bene è passare per martiri.» E quando pronunciò la parola "sciiti" fece una smorfia, come se si trattasse di una malattia infettiva.
Gino Strada, Pappagalli verdi
Un vecchio afgano con i sandali rotti e infangati, e il turbante con la coda che scendeva fino alla cintura, stava accanto al figlio di sei anni nel pronto soccorso dell’ospedale di Quetta. Il bambino si chiamava Khalil e aveva il volto e le mani, o quel che ne restava, coperti da abbondanti fasciature. Stava sdraiato, immobile, la camicia annerita dall’esplosione. Qualcuno aveva strappato una manica e ne aveva fatto un laccio, legato stretto sul braccio destro per fermare l’emorragia. – È stato ferito da una mina giocattolo, quelle che i russi tirano sui nostri villaggi – disse Mubarak, l’infermiere che faceva anche da interprete, avvicinandosi con un catino di acqua e una spugna. Non si è neanche mosso, il bambino, non un lamento. In sala operatoria ho tolto le bende: la mano destra non c’era più, sostituita da un’orrenda poltiglia simile a un cavolfiore bruciacchiato, tre dita della sinistra completamente spappolate. “Avrà preso in mano una granata”, mi sono detto. Sarebbero passati solo tre giorni, prima di ricevere in ospedale un caso analogo, ancora un bambino. All’uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di plastica verde scuro, bruciacchiato dall’esplosione. – Guarda, questo è un pezzo di mina giocattolo, l’hanno raccolto sul luogo dell’esplosione. I nostri vecchi le chiamano pappagalli verdi… – e si mette a disegnare la forma della mina: dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembra una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il pezzo di plastica che ho in mano, è l’estremità dell’ala. – … Vengono giù a migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota. Chiedi ad Abdullah, l’autista dell’ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una l’anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco. Mine giocattolo, studiate per mutilare bambini. Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire.
- Rappresenta la percentuale dei principali gruppi etnici dell'Afghanistan attraverso un grafico per istogrammi.
- Scrivi qui il tasso di mortalità infantile in Afghanistan; cosa significa questo numero? Nella pratica in cosa si traduce? Secondo te, qual è il tasso italiano?
- Qual è la principale coltivazione del Paese?
- Leggi il brano seguente tratto dal libro di Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni; cerca qualche notizia sull'autore e prepara un breve riassunto orale.
- Leggi il brano seguente tratto dal libro di Gino Strada, Pappagalli verdi; cerca qualche notizia sull'autore e prepara un breve riassunto orale.
Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni
Ali aveva i tratti mongolici caratteristici degli hazara. Per anni tutto ciò che avevo saputo
di loro era che discendevano dai mongoli e che assomigliavano ai cinesi. I libri di testo quasi non ne parlavano. Poi, un giorno, nello studio di Baba, trovai un vecchio libro di storia di mia madre, scritto da un iraniano. Quella sera, a letto, lo lessi e fui sorpreso di trovare un intero capitolo sugli hazara. Un intero capitolo dedicato alla popolazione di Hassan! Scoprii che la mia gente, i pashtun, li aveva perseguitati e oppressi. Da secoli, periodicamente, gli hazara cercavano di ribellarsi, ma i pashtun "li reprimevano con inaudita violenza". Il libro diceva che la mia gente li aveva uccisi, torturati, aveva bruciato le loro case e venduto le loro donne. E una delle ragioni era che loro erano sciiti e noi sunniti. Il libro diceva cose che nessuno mi aveva mai detto. Ma anche cose che io sapevo benissimo, per esempio che gli hazara erano chiamati nasipiatti, mangiaratti, asini da soma. La settimana seguente mostrai al mio maestro il libro. Scorse in fretta un paio di pagine e me lo restituì con un sorrisetto di
sufficienza. «Se c'è una cosa che gli sciiti sanno fare bene è passare per martiri.» E quando pronunciò la parola "sciiti" fece una smorfia, come se si trattasse di una malattia infettiva.
Gino Strada, Pappagalli verdi
Un vecchio afgano con i sandali rotti e infangati, e il turbante con la coda che scendeva fino alla cintura, stava accanto al figlio di sei anni nel pronto soccorso dell’ospedale di Quetta. Il bambino si chiamava Khalil e aveva il volto e le mani, o quel che ne restava, coperti da abbondanti fasciature. Stava sdraiato, immobile, la camicia annerita dall’esplosione. Qualcuno aveva strappato una manica e ne aveva fatto un laccio, legato stretto sul braccio destro per fermare l’emorragia. – È stato ferito da una mina giocattolo, quelle che i russi tirano sui nostri villaggi – disse Mubarak, l’infermiere che faceva anche da interprete, avvicinandosi con un catino di acqua e una spugna. Non si è neanche mosso, il bambino, non un lamento. In sala operatoria ho tolto le bende: la mano destra non c’era più, sostituita da un’orrenda poltiglia simile a un cavolfiore bruciacchiato, tre dita della sinistra completamente spappolate. “Avrà preso in mano una granata”, mi sono detto. Sarebbero passati solo tre giorni, prima di ricevere in ospedale un caso analogo, ancora un bambino. All’uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di plastica verde scuro, bruciacchiato dall’esplosione. – Guarda, questo è un pezzo di mina giocattolo, l’hanno raccolto sul luogo dell’esplosione. I nostri vecchi le chiamano pappagalli verdi… – e si mette a disegnare la forma della mina: dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembra una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il pezzo di plastica che ho in mano, è l’estremità dell’ala. – … Vengono giù a migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota. Chiedi ad Abdullah, l’autista dell’ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una l’anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco. Mine giocattolo, studiate per mutilare bambini. Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire.