Lettera al padre, luglio 1819 (testo adattato)
Mio Signor Padre.
Sebbene dopo aver saputo quello ch'io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà rifiutare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che l'ha sempre amata e l'ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere.
Ella conosce me, e conosce la condotta ch'io ho tenuta fino ad ora, e forse quando voglia spogliarsi d'ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l'Italia, e sto per dire in tutta l'Europa, non si troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali inferiori ai miei, abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommessione ai suoi genitori ch'ho usata io.
Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede del tutto a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto ed hanno dato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, perfino quelli che si accordano perfettamente col suo modo di pensare, hanno giudicato ch'iosarei divenuto celebre e stimato, se mi si fossero dati quei mezzi che oggi , e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di se. Era cosa mirabile come chiunque venisse a conoscenza di me e delle mie opere, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi ancora in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente.
Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non vi è nessun giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia aiutato, al fine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà che tutti hanno in quell'età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava ai 21 anno. Ma lasciando questo, benché io avessi dato prove di me, s'io non m'inganno, abbastanza rare e precoci, nondimeno solamente molto dopo l'età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio ch'Ella provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti.
Io vedeva parecchie famiglie di questa medesima città, molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d'infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume d'ingegno veduto in un loro figlio, non esitavano a far gravissimi sacrifici al fine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de' suoi talenti.
Ma nonostante il fatto che si credesse da parte di molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, nè le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare cogl'impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed Ella non credè che le sue relazioni, in somma le sue preoccupazioni dovessero neppur essere impiegate per uno sistemazione di questo suo figlio.
Io sapeva bene i progetti ch'Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamar casa e famiglia, Ella esigeva da noi due [da Giacomo e dal fratello Carlo, ndr] il sacrifizio, non di roba nè di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita [il padre progettava che Giacomo divenisse prete]. Il quale [sacrificio] essendo io certo ch'Ella nè da Carlo nè da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in nessun modo.
Ella conosceva anche la miserabilissima vita ch'io conducevo per le orribili malinconie, ed i tormenti di ogni genere che mi proccurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa debolissima salute, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Nonostante questo Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi in studi micidiali o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, depressione, derivata dalla necessaria solitudine e dalla vita del tutto priva di occupazioni, come soprattutto negli ultimi mesi.
Non tardai molto ad accorgermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero ch'io benché privo di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me [è diventato maggiorenne, ndr], non ho voluto più tardare a farmi carico della mia sorte.
Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti lussi possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.
So che sarò ritenuto pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo.
I padri giudicano i loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ci giudica più sfavorevolmente d'ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d'altra opinione; quanto a noi, siccome il disperare di se stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati.
Avendole spiegato il perché della mia decisione, resta ch'io le domandi perdono del disturbo che le vengo a recare con questa lettera e con quello ch'io porto meco [nel fuggire di casa, Giacomo decide di portare con sé un po' di denaro, sottratto al padre di nascosto, ndr]. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io sono, e non potendo sperar più nulla da Lei, per l'espressioni ch'Ella si è lasciato a bella posta più volte uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di stenti in mezzo al sentiero il secondo giorno, di comportarmi come ho fatto. Me ne dispiace moltissimo, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia decisione, pensando di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione. Alle quali io son grato sino all'estremo dell'anima, e mi pesa infinitamente di parere affetto da quel vizio che odio più di tutti, cioè l'ingratitudine.
La sola differenza di principii, che non era in nessun modo appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o a questo passo ch'io faccio, è stata ragione della mia disavventura. È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che guardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi. Quello che mi consola è il pensare che questa è l'ultimo fastidio ch'io le porto, e che serve a liberarla dal continuo fastidio della mia presenza, e dai tanti altri disturbi che la mia persona le ha dati, e molto più le darebbe per l'avvenire.
Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m'inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d'ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di qualcosa, il mio primo pensiero sarà di restituire quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi.
L'ultimo favore ch'io le domando, è che se mai le si desterà la memoria di questo figlio che l'ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, nè la maledica; e se la sorte non ha voluto ch'Ella si possa lodare di lui, non rifiuti di concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori.
Luglio 1819