Luigi Pirandello
(Agrigento 1867- Roma 1936)
“Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu” . (Frammento d’autobiografia, 1893)
Pirandello viene a contatto durante l’infanzia con le storie magiche delle campagne intorno ad Agrigento, in cui si mescolano miti di origine araba e greca, che gli forniranno più di una ispirazione letteraria. Inizia gli studi universitari a Roma, dove osserva una società corrotta e stanca, emblema del fallimento del Risorgimento sognato e realizzato solo in parte.
Prosegue gli studi a Bonn, dove si laurea nel 1891. Si stabilisce poi a Roma, dove compone le prime novelle e il primo romanzo, l'Esclusa. Qui vive con la moglie Antonietta, sposata nel 1894 e con i figli che gli nasceranno Stefano, Lietta Fausto. Negli anni successivi, Pirandello lavora alacremente al suo secondo romanzo, collabora con riviste e giornali, continua a comporre le novelle e i primi atti unici per il teatro, insegna Linguistica alla facoltà di Magistero.
Nel 1903 arriva dalla Sicilia la notizia del fallimento dell’impresa di zolfo dei Pirandello: improvvisamente privato della rendita paterna, privo di mezzi sufficienti a sostentare la famiglia, travolto dalla grave crisi nervosa della moglie Antonietta che precipiterà progressivamente verso la più cupa follia, Pirandello medita il suicidio. Cominciano anni durissimi, di lavoro incessante e non più disinteressato:
“Avevo la novellina, intitolata La buon’anima, e invece che al “Marzocco”, l’ho mandata alla “Riviera ligure”. [...] per venticinque lire l’ho mandata a un altro giornale!” (lettera a A. Orvieto).
Nel 1904 pubblica il romanzo Il Fu Mattia Pascal ed è subito successo internazionale; lavora alacremente agli altri romanzi e ai saggi tra i quali L’umorismo (1908), vero manifesto di poetica. Pirandello conduce una vita ritirata, compresso dalle sventure familiari e dagli impegni di lavoro. Dal 1910 intensifica l’attività teatrale. Riceve con le prime commedie un buon successo, continua la produzione di novelle (che verranno poi raccolte nel volume Novelle per un anno) e romanzi. Nel 1915 il figlio Stefano parte volontario per la guerra, è subito fatto prigioniero in Germania dove rimarrà in precarie condizioni di salute per tre anni, durante i quali il padre soffrirà moltissimo di questa lontananza resa più acuta dalla decisione resasi necessaria per l’aggravarsi di un clima familiare insopportabile, di ricoverare la moglie in una casa di cura. Dal 1916 comincia la luminosa stagione del teatro grottesco, con importanti riconoscimenti di critica e pubblico (Così è se vi pare, Il giuoco delle parti). Nel 1921 ha inizio la fase più importante del suo teatro con la messa in scena di Sei personaggi in cerca d’autore e a seguire Ciascuno a suo modo, Enrico IV, Questa sera si recita a soggetto. Pirandello trascina il teatro italiano, col suo vecchio repertorio romantico-naturalistico e borghese, fuori del provincialismo ottocentesco e lo apre alle nuove esperienze drammaturgiche e registiche europee. l successo dell’autore siciliano diviene planetario.
Pirandello è ovunque reclamato a gran voce.
Mentre nei teatri di tutto il mondo si rappresentano le sue commedie, egli vive il dramma della lontananza della figlia Lietta, sposatasi e trasferitasi in Cile, a cui è morbosamente legato. Nel 1922 chiede un anno sabatico o il collocamento a riposo, stremato dagli impegni accademici che si sommano al suo crescente impegno in teatro: il ministro Gentile lo colloca a riposo. Sono gli anni dell’adesione al fascismo, originata probabilmente dalla delusione post risorgimentale; la sua arte, tuttavia, resta violentemente anticonformista e lontanissima dalle parole d’ordine del regime e dal dannunzianesimo. Del resto Mussolini lo tratterà sempre con un misto di diffidenza e fastidio: nel 1933 la Germania nazista definirà la sua opera antiborghese “ arte degenerata”. Nel 1924 Pirandello assume la direzione artistica del Teatro d’Arte, la cui compagnia in tre anni allestirà in Europa oltre 50 spettacoli; con Pirandello si assiste anche in Italia al passaggio dal capocomico al regista.
Pirandello viene a contatto durante l’infanzia con le storie magiche delle campagne intorno ad Agrigento, in cui si mescolano miti di origine araba e greca, che gli forniranno più di una ispirazione letteraria. Inizia gli studi universitari a Roma, dove osserva una società corrotta e stanca, emblema del fallimento del Risorgimento sognato e realizzato solo in parte.
Prosegue gli studi a Bonn, dove si laurea nel 1891. Si stabilisce poi a Roma, dove compone le prime novelle e il primo romanzo, l'Esclusa. Qui vive con la moglie Antonietta, sposata nel 1894 e con i figli che gli nasceranno Stefano, Lietta Fausto. Negli anni successivi, Pirandello lavora alacremente al suo secondo romanzo, collabora con riviste e giornali, continua a comporre le novelle e i primi atti unici per il teatro, insegna Linguistica alla facoltà di Magistero.
Nel 1903 arriva dalla Sicilia la notizia del fallimento dell’impresa di zolfo dei Pirandello: improvvisamente privato della rendita paterna, privo di mezzi sufficienti a sostentare la famiglia, travolto dalla grave crisi nervosa della moglie Antonietta che precipiterà progressivamente verso la più cupa follia, Pirandello medita il suicidio. Cominciano anni durissimi, di lavoro incessante e non più disinteressato:
“Avevo la novellina, intitolata La buon’anima, e invece che al “Marzocco”, l’ho mandata alla “Riviera ligure”. [...] per venticinque lire l’ho mandata a un altro giornale!” (lettera a A. Orvieto).
Nel 1904 pubblica il romanzo Il Fu Mattia Pascal ed è subito successo internazionale; lavora alacremente agli altri romanzi e ai saggi tra i quali L’umorismo (1908), vero manifesto di poetica. Pirandello conduce una vita ritirata, compresso dalle sventure familiari e dagli impegni di lavoro. Dal 1910 intensifica l’attività teatrale. Riceve con le prime commedie un buon successo, continua la produzione di novelle (che verranno poi raccolte nel volume Novelle per un anno) e romanzi. Nel 1915 il figlio Stefano parte volontario per la guerra, è subito fatto prigioniero in Germania dove rimarrà in precarie condizioni di salute per tre anni, durante i quali il padre soffrirà moltissimo di questa lontananza resa più acuta dalla decisione resasi necessaria per l’aggravarsi di un clima familiare insopportabile, di ricoverare la moglie in una casa di cura. Dal 1916 comincia la luminosa stagione del teatro grottesco, con importanti riconoscimenti di critica e pubblico (Così è se vi pare, Il giuoco delle parti). Nel 1921 ha inizio la fase più importante del suo teatro con la messa in scena di Sei personaggi in cerca d’autore e a seguire Ciascuno a suo modo, Enrico IV, Questa sera si recita a soggetto. Pirandello trascina il teatro italiano, col suo vecchio repertorio romantico-naturalistico e borghese, fuori del provincialismo ottocentesco e lo apre alle nuove esperienze drammaturgiche e registiche europee. l successo dell’autore siciliano diviene planetario.
Pirandello è ovunque reclamato a gran voce.
Mentre nei teatri di tutto il mondo si rappresentano le sue commedie, egli vive il dramma della lontananza della figlia Lietta, sposatasi e trasferitasi in Cile, a cui è morbosamente legato. Nel 1922 chiede un anno sabatico o il collocamento a riposo, stremato dagli impegni accademici che si sommano al suo crescente impegno in teatro: il ministro Gentile lo colloca a riposo. Sono gli anni dell’adesione al fascismo, originata probabilmente dalla delusione post risorgimentale; la sua arte, tuttavia, resta violentemente anticonformista e lontanissima dalle parole d’ordine del regime e dal dannunzianesimo. Del resto Mussolini lo tratterà sempre con un misto di diffidenza e fastidio: nel 1933 la Germania nazista definirà la sua opera antiborghese “ arte degenerata”. Nel 1924 Pirandello assume la direzione artistica del Teatro d’Arte, la cui compagnia in tre anni allestirà in Europa oltre 50 spettacoli; con Pirandello si assiste anche in Italia al passaggio dal capocomico al regista.
Comincia il sodalizio umano e artistico con Marta Abba: più giovane di lui di 33 anni, l'attrice diviene la sua musa ispiratrice; per lei, data la scandalosa differenza di età e la condizione matrimoniale dell’artista, Pirandello nutrirà fino alla fine un amore casto e assoluto.
La Gloria? la Ricchezza? Tu, primo che passi per la via, le vuoi? te le do, te le do per nulla, te le do in cambio della ventura che a te, pover’uomo, può toccare, ritornando a casa, di sentirsi dire una “parola inutile”! (lettera a Marta Abba)
I rapporti con i figli, in particolare con Lietta sono compromessi dal ruolo che Marta assume per Pirandello: Lietta è gelosa, il padre sembra non più disposto ad annullarsi. Subentrano discussioni tra i figli per la gestione del patrimonio del padre che nel frattempo impoverisce, mancando alla Compagnia i finanziamenti promessi dal regime e mai arrivati. Dopo decenni di lavoro votato al sostentamento dei figli, l’uomo sembra guardare la realtà con occhi diversi:
Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace. (lettera a Marta Abba)
Nel 1925, dopo quindici anni di gestazione, pubblica il romanzo-testamento Uno, nessuno centomila, l’ultimo aceto della mia botte. Contemporaneamente ha inizio l’ultimo tempo della drammaturgia pirandelliana, con opere costruite intorno alla figura della Abba, di forte tensione mitica e simbolica. Nel 1928 la Compagnia, oberata dalle difficoltà economiche e isolata nell’asfittico panorama teatrale italiano, viene sciolta. Per Pirandello è un’amara delusione. Decide di lasciare l’Italia mentre si consuma il distacco dalla Abba che lo getta nella più cupa disperazione.
Comincia per Pirandello un periodo errabondo, in cui fatica a stabilirsi a lungo in un luogo; vaga solo per l’Europa, viaggiando continuamente in uno stato di depressione e sfiducia. Rientrerà in Italia alla fine del 1931, continuando sempre a viaggiare per la penisola, mentre si aggrava la sua salute.
[...] una casa, una patria, non sono più per me. Il mio animo si è ormai alienato da tutto e non trova più contatto con nulla né con nessuno. [...] E così tiro avanti giorno per giorno. Oggi ancora qui, domani forse altrove. Non so io stesso come faccia a resistere in questo stato, né perché duri ancora; ma un altro ormai mi sarebbe impossibile. È così. [...]
Non so se io vada fuggendo la vita o la vita me. Mi sento del tutto “distaccato”. Vedo la terra remotissima. Da dove guardo ormai tutte le cose della vita, sono molto, ma molto molto più distante. (Lettere a Lietta)
Continuano le incomprensioni con il regime fascista, poco interessato a promuovere il teatro rispetto a forme più popolari di intrattenimento come il calcio o il cinematografo, e anche con gli ambienti cattolici che gli rimproverano il suo incoercibile ateismo demistificatore, ostile negli ultimi drammi sia al trono che all’altare. Nel 1934 gli viene assegnato il premio Nobel per la Letteratura. Mentre la sua fama mondiale tocca il culmine, in Italia la notizia viene accolta con malcelato fastidio e qualche gelosia. Un improvviso malore gli causa una grave complicazione polmonare il 10 dicembre del 1936.
La Gloria? la Ricchezza? Tu, primo che passi per la via, le vuoi? te le do, te le do per nulla, te le do in cambio della ventura che a te, pover’uomo, può toccare, ritornando a casa, di sentirsi dire una “parola inutile”! (lettera a Marta Abba)
I rapporti con i figli, in particolare con Lietta sono compromessi dal ruolo che Marta assume per Pirandello: Lietta è gelosa, il padre sembra non più disposto ad annullarsi. Subentrano discussioni tra i figli per la gestione del patrimonio del padre che nel frattempo impoverisce, mancando alla Compagnia i finanziamenti promessi dal regime e mai arrivati. Dopo decenni di lavoro votato al sostentamento dei figli, l’uomo sembra guardare la realtà con occhi diversi:
Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace. (lettera a Marta Abba)
Nel 1925, dopo quindici anni di gestazione, pubblica il romanzo-testamento Uno, nessuno centomila, l’ultimo aceto della mia botte. Contemporaneamente ha inizio l’ultimo tempo della drammaturgia pirandelliana, con opere costruite intorno alla figura della Abba, di forte tensione mitica e simbolica. Nel 1928 la Compagnia, oberata dalle difficoltà economiche e isolata nell’asfittico panorama teatrale italiano, viene sciolta. Per Pirandello è un’amara delusione. Decide di lasciare l’Italia mentre si consuma il distacco dalla Abba che lo getta nella più cupa disperazione.
Comincia per Pirandello un periodo errabondo, in cui fatica a stabilirsi a lungo in un luogo; vaga solo per l’Europa, viaggiando continuamente in uno stato di depressione e sfiducia. Rientrerà in Italia alla fine del 1931, continuando sempre a viaggiare per la penisola, mentre si aggrava la sua salute.
[...] una casa, una patria, non sono più per me. Il mio animo si è ormai alienato da tutto e non trova più contatto con nulla né con nessuno. [...] E così tiro avanti giorno per giorno. Oggi ancora qui, domani forse altrove. Non so io stesso come faccia a resistere in questo stato, né perché duri ancora; ma un altro ormai mi sarebbe impossibile. È così. [...]
Non so se io vada fuggendo la vita o la vita me. Mi sento del tutto “distaccato”. Vedo la terra remotissima. Da dove guardo ormai tutte le cose della vita, sono molto, ma molto molto più distante. (Lettere a Lietta)
Continuano le incomprensioni con il regime fascista, poco interessato a promuovere il teatro rispetto a forme più popolari di intrattenimento come il calcio o il cinematografo, e anche con gli ambienti cattolici che gli rimproverano il suo incoercibile ateismo demistificatore, ostile negli ultimi drammi sia al trono che all’altare. Nel 1934 gli viene assegnato il premio Nobel per la Letteratura. Mentre la sua fama mondiale tocca il culmine, in Italia la notizia viene accolta con malcelato fastidio e qualche gelosia. Un improvviso malore gli causa una grave complicazione polmonare il 10 dicembre del 1936.
Queste le ultime volontà di Pirandello, lasciate scritte su un foglietto ritrovato dalla famiglia:
“ MIE ULTIME VOLONTÀ DA RISPETTARE ”
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzii né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.
“ MIE ULTIME VOLONTÀ DA RISPETTARE ”
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzii né partecipazioni.
II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.
III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.
IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui.
Tra i temi dell'arte pirandelliana, la follia ha un ruolo importante: chi è il pazzo? Cosa vuol dire in una società ipocrita e legata alle apparenze, essere pazzo?
Ne Il berretto a sonagli la borghese Beatrice, convinta che il marito la tradisca con la giovane moglie di Ciampa (fidato dipendente del negozio di famiglia), escogita uno stratagemma per sorprendere e svergognare pubblicamente i due amanti. Il piano fallisce perché i due non vengono sorpresi in atteggiamento compromettente, ma lo scandalo è grande. Ciampa, sulla bocca di tutti come marito tradito e forse anche consenziente, pretende allora da Beatrice che ella si finga pazza per giustificare il suo comportamento agli occhi della società e riabilitare il nome dell'innocente Ciampa. Beatrice obietta di non sapere come si fa a fingersi pazza e Ciampa risponde:
“Gliel'insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità.
Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!” (Il berretto a sonagli, atto II)
Qui sotto puoi vedere l'edizione televisiva de Il berretto a sonagli con Paolo Stoppa, regia di Luigi Squarzina e con un'introduzione di Giorgio Albertazzi
Ne Il berretto a sonagli la borghese Beatrice, convinta che il marito la tradisca con la giovane moglie di Ciampa (fidato dipendente del negozio di famiglia), escogita uno stratagemma per sorprendere e svergognare pubblicamente i due amanti. Il piano fallisce perché i due non vengono sorpresi in atteggiamento compromettente, ma lo scandalo è grande. Ciampa, sulla bocca di tutti come marito tradito e forse anche consenziente, pretende allora da Beatrice che ella si finga pazza per giustificare il suo comportamento agli occhi della società e riabilitare il nome dell'innocente Ciampa. Beatrice obietta di non sapere come si fa a fingersi pazza e Ciampa risponde:
“Gliel'insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità.
Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!” (Il berretto a sonagli, atto II)
Qui sotto puoi vedere l'edizione televisiva de Il berretto a sonagli con Paolo Stoppa, regia di Luigi Squarzina e con un'introduzione di Giorgio Albertazzi
"La vita o si vive o si scrive": tutti gli uomini così detti "normali", pur non essendo scrittori, passano tutta la vita a scrivere, a inventare la parte, il personaggio, anzi i personaggi, che necessitano interpretare di fronte agli altri, e talvolta di fronte a loro stessi, in un preciso istante. Colui che in quel preciso istante si rifiuta di recitare una parte è colui che si illude che l'acqua fuori da un recipiente sia in grado di assumere la sua forma propria, quindi è colui che ha un' alterata percezione della realtà, quindi è colui che è pazzo. Il pazzo è quindi colui che si rifiuta di scrivere la propria vita perchè ha l'imprudenza o la forza di accettare il suo destino di senza forma nè verità. Ilaria Giovannelli, 3B
Un altro tema pirandelliano è costituito dalla forma, dalla parte, cioè, che ciascun essere umano recita per il mondo: un uomo può essere marito per sua moglie, padre per i suoi figli, capufficio per i suoi impiegati; ma per sé stesso, chi è?
Al di là delle forme tutte diverse che ciascuno assume, chi siamo veramente? e qual è la verità?
ATTIVITA' 1
Hai assistito a brani scelti del dramma Così è se vi pare, incentrato sui temi della forma, della pazzia e della Verità. Sul quaderno sviluppa i seguenti spunti:
1 - riassumi brevemente sul quaderno la vicenda che ruota intorno ai due protagonisti ( il sig. Ponza e la sig.ra Frola), alla sig.ra Ponza e alla piccola folla dei vicini di casa;
2 - sulla scena, come appaiono collocati Frola e Ponza rispetto agli altri personaggi del vicinato? Come vengono trattati i due protagonisti dagli altri personaggi?
3 - Perché i vicini sono così accaniti nel ricercare la Verità?
4 - Chi è la donna che appare alla fine? Perché è velata?
5 - In quale personaggio si riconosce Pirandello?
6 -Quale opinione ha Pirandello della Verità?
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Il più famoso dramma pirandelliano è Sei personaggi in cerca d'autore. L'opera risultò così innovativa nel panorama teatrale contemporaneo che non fu capita e in un primo momento fu duramente contestata.
I sei personaggi sono il primo dramma della trilogia metateatrale (il teatro che prende come argomento il teatro); vi si indaga su chi sia più vero, il personaggio creato dall'artista (coerente, con sentimenti e reazioni precisi e immutabili per sempre) o l'attore che lo interpreta (incapace di provare gli stessi sentimenti e soggetto al mutamento)?
Pirandello qui vuole affrontare il tema della vita e dell'arte: l'uomo muta forma in base alle situazioni e nel tempo; il personaggio, nato dalla fantasia dell''artista, è sempre uguale a sé stesso, non muore e non muta mai, quindi è più vero.
Che è poi quello che ho detto sempre io, per me: “la vita, o si vive o si scrive”. (L. Pirandello, lettera a Marta Abba)
ATTIVITA' 2
Riassumi sul quaderno la situazione da cui prende l'avvio il dramma.
Pirandello scompone la realtà attraverso la lente dell'umorismo, un mezzo efficacissimo per rappresentare la psicologia dei personaggi e metterne in evidenza le contraddizioni.
“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.” (L. Pirandello, L'umorismo)
“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.” (L. Pirandello, L'umorismo)
Avvertenza sugli scrupoli della fantasia (Dal 1925 questa Avvertenza viene premessa a tutte le edizioni del romanzo Il fu Mattia Pascal, ferocemente criticato in quanto "inverosimile", ndr)
Il signor Alberto Heintz, di Buffalo negli Stati Uniti, al bivio tra l’amore della moglie e quello d’una signorina ventenne, pensa bene di invitar l’una e l’altra a un convegno per prendere insieme con lui una decisione. Le due donne e il signor Heintz si trovano puntuali al luogo convenuto; discutono a lungo, e alla fine si mettono d’accordo. Decidono di darsi la morte tutti e tre. La signora Heintz ritorna a casa; si tira una revolverata e muore. Il signor Heintz, allora, e la sua innamorata signorina ventenne, visto che con la morte della signora Heintz ogni ostacolo alla loro felice unione è rimosso, riconoscono di non aver più ragione d’uccidersi e risolvono di rimanere in vita e di sposarsi. Diversamente però risolve l’autorità giudiziaria, e li trae in arresto.
Conclusione volgarissima.
(Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921, edizione del mattino.)
Poniamo che un disgraziato scrittor di commedie abbia la cattiva ispirazione di portare sulla scena un caso simile.
Si può esser sicuri che la sua fantasia si farà scrupolo prima di tutto di sanare con eroici rimedii l’assurdità di quel suicidio della signora Heintz, per renderlo in qualche modo verosimile.
Ma si può essere ugualmente sicuri, che, pur con tutti i rimedii eroici escogitati dallo scrittor di commedie, novantanove critici drammatici su cento giudicheranno assurdo quel suicidio e inverosimile la commedia.
Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un’opera d’arte, se è opera d’arte, no.
Ne segue che tacciare d’assurdità e d’inverosimiglianza, in nome della vita, un’opera d’arte è balordaggine.
In nome dell’arte, sì; in nome della vita, no.
Il signor Alberto Heintz, di Buffalo negli Stati Uniti, al bivio tra l’amore della moglie e quello d’una signorina ventenne, pensa bene di invitar l’una e l’altra a un convegno per prendere insieme con lui una decisione. Le due donne e il signor Heintz si trovano puntuali al luogo convenuto; discutono a lungo, e alla fine si mettono d’accordo. Decidono di darsi la morte tutti e tre. La signora Heintz ritorna a casa; si tira una revolverata e muore. Il signor Heintz, allora, e la sua innamorata signorina ventenne, visto che con la morte della signora Heintz ogni ostacolo alla loro felice unione è rimosso, riconoscono di non aver più ragione d’uccidersi e risolvono di rimanere in vita e di sposarsi. Diversamente però risolve l’autorità giudiziaria, e li trae in arresto.
Conclusione volgarissima.
(Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921, edizione del mattino.)
Poniamo che un disgraziato scrittor di commedie abbia la cattiva ispirazione di portare sulla scena un caso simile.
Si può esser sicuri che la sua fantasia si farà scrupolo prima di tutto di sanare con eroici rimedii l’assurdità di quel suicidio della signora Heintz, per renderlo in qualche modo verosimile.
Ma si può essere ugualmente sicuri, che, pur con tutti i rimedii eroici escogitati dallo scrittor di commedie, novantanove critici drammatici su cento giudicheranno assurdo quel suicidio e inverosimile la commedia.
Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un’opera d’arte, se è opera d’arte, no.
Ne segue che tacciare d’assurdità e d’inverosimiglianza, in nome della vita, un’opera d’arte è balordaggine.
In nome dell’arte, sì; in nome della vita, no.